Riflessioni di un reduce
Come tutti i medici, chi scrive non ama la metafora della guerra. Se la usa è perché a volte le metafore sono lo strumento migliore per far comprendere una realtà. Come quella della pandemia.
Chi scrive è un reduce di Covid-19, come lo sono tutti i colleghi che sono stati in prima linea e che hanno vissuto più di ogni altro, esclusi i malati, lo sgomento dell’assalto, l’angoscia delle armi impari, il dramma delle morti. Come nelle vere guerre, i reduci sono coloro che hanno una storia da raccontare che ben pochi vogliono sentire. Coloro che si diceva di voler decorare per il valore dimostrato ma che non meritano dieci minuti di ascolto attento. È doppia, per loro, la condanna: pagare un prezzo personale, intimo (ma non solo, perché inevitabilmente ricade sulle persone che stanno loro accanto) e, allo stesso tempo, subire quella specie di marginalizzazione sociale che spetta a chi rappresenta la memoria dolorosa e gli errori attuali della società. Molti colleghi, purtroppo, conoscono le manifestazioni della sindrome da stress post-traumatico, con la vita sul filo di una vaga depressione, la mente alla ricerca di un orizzonte sereno, ma continuamente costretta a volgersi indietro, verso quel che è stato e non è dimenticabile. Ora, oltre al flashback, una nuova manifestazione della sindrome è il flash-forward: il reduce vede il futuro, perché l’ha già vissuto. Non riesce a elaborare il passato, perché sa che quel passato non è concluso: può diventare, di nuovo, il suo avvenire e non in base a presagi, ma a probabilità.